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ONCLUSIONE
Il titolo del lavoro, provvidenzialmente suggeritomi dal prof. d’Onofrio, perfettamente
sintetizza il contenuto dello stesso e dovrebbe confermare l’impressione del lettore di trovarsi al
cospetto di un pensatore destinato a muoversi nelle sabbie mobili degli anni immediatamente
precedenti l’opera sistematizzatrice di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Il graduale
ingresso di Aristotele negli studi complica ulteriormente una situazione intellettuale già poco
improntata alla chiarezza terminologica e dottrinale. Nell’officina della prima scuola domenicana
lentamente si forgia una nuova sapienza, inconsciamente si prepara il terreno ai grandi teologi
dell’ordine, e Guerrico, operaio nella messe dei predicatori, più o meno fedelmente, con estro e
talvolta irriverenza, sotto il sole della teologia fatica.
Ambiguità e oscillazioni costituiscono la costante del pensiero di Guerrico. Nei commenti
scritturali, il maestro di Saint-Quentin, se da un lato contribuisce all’introduzione dello schema
aristotelico delle quattro cause nei prologhi delle postille e applica un’interessante e originale
esegesi letterale, attenta al testo biblico e alle sue divisioni e sotto-divisioni, dall’altro non
assume come punto di riferimento alcuna teoria esegetica né si preoccupa di teorizzare una
metodologia che solo la prassi svela. Quando prova a discutere, seppur non in maniera
sistematica, del rapporto tra senso letterale e senso spirituale, Guerrico si barcamena
confusamente tra influenze gioachimite (individuazione della tipologia nella lettera), influenze
agostiniane e patristiche (primato del senso spirituale) e influenze contemporanee (primato del
senso letterale). Soltanto all’analisi della pratica esegetica emerge un’attenzione per la littera,
non giustificata né speculativamente argomentata.
Analogamente, nella psicologia, Guerrico si muove caoticamente tra platonismo,
aristotelismo e ortodossia. Se per un verso intuisce la maggiore conformità del platonismo
all’ortodossia, riprendendo da esso l’idea della separatezza dell’anima intesa come principio
essenzialmente spirituale, dall’altro riconosce l’autorità aristotelica quando cita lo Stagirita già
come il philosophus e, nel goffo tentativo di adeguarsi a essa, accoglie una concezione
ilemorfica dell’anima (evidentemente contraria all’aristotelismo) e ammette una presenza
dell’anima in tutto il corpo, ricusando tuttavia a tale presenza l’essenzialità che le concedeva lo
Stagirita. Costantemente preoccupato dalla fedeltà alla dottrina e dalla necessità di salvaguardare
l’immortalità dell’anima, il maestro di Saint-Quentin, poco cosciente dei suoi fraintendimenti,
non riesce ad abbandonarsi totalmente al fascino della nova philosophia e appare come stretto in
una morsa, illuso di essere un epigono del greco e di proporre una sintesi tra il nuovo che avanza
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